Due protagonisti in scena: il grande maestro di Hollywood e Broadway e la luce che, attraverso un uso sapiente dei riflettori, fa da contrappunto al recitato, lo sottolinea, avvolge e mostra, nella sua scabra verità di uomo, Orson Welles. Giuseppe Battiston non ha bisogno d'altro - a parte pochi oggetti di scena che, come nel miglior teatro skakespeariano, suggeriscono più che rappresentare - per ridare carne e sangue all'attore, sceneggiatore e regista statunitense. Un monologo asciutto, un roast - ossia un panegirico non ai fini di esaltare ma di ridicolizzare il protagonista e narratore dello stesso - per raccontare in poco più di un'ora, con accento e sarcasmo smaccatamente anglosassoni, momenti geniali o squarci di intimità di un uomo che ha contribuito a costruire quella macchina dei sogni che è il cinema perché, come lo stesso Battiston afferma nei panni di Welles, questi avrebbe voluto fare l'illusionista e, se l'arte è finzione chi altri è il regista se non colui che incanta?