Il senso della caducità di tutte le cose. Un destino ineluttabile, immanente, sovrasta e contrasta l’insostenibile leggerezza del “Giardino”. Proprio per questo, nonostante l’autore insistesse nel definire la pièce una commedia e il regista Stanislavskij una tragedia, l’ultima opera teatrale di Čechov è anche la più lirica. Scritta tra il 1902 e il 1903 nel ritiro di Jalta, dove l’autore, ormai minato dalla tubercolosi, si era stabilito da un paio d’anni, la vicenda di Ljubov’ e della sua famiglia non rispecchia solo la decadenza della aristocrazia terriera e l’ascesa della classe borghese, né si limita a descrivere la conseguente trasformazione sociale e di mentalità, ma pone l’accento sul passare inesorabile delle stagioni della vita.
Tornano i temi cari al drammaturgo russo: l’idealismo velleitario, la frustrazione deprimente e soprattutto “la sofferenza del mutamento”, che abbatte gli uomini come i ciliegi del meraviglioso giardino, messo all’asta per pagare un’ipoteca. Sin dalle prime battute noi spettatori sappiamo che tutto è perduto, in simbiosi con i personaggi che si ritrovano nella grande casa, intenti più a rievocare i ricordi del tempo andato che a trovare concrete soluzioni. Così il nuovo che avanza travolgerà tutto, a dimostrazione che per ogni mondo che scompare, subito un altro si affaccia, e non ce ne siamo accorti. Quel giardino siamo noi e come noi finisce. Čechov morì sei mesi dopo il debutto.