Il Massimo di Palermo propone l’ultimo capolavoro di Puccini, Turandot, in un allestimento originalissimo, nel quale la videoarte intrattiene un inedito dialogo con l’azione tra intuizioni geniali e nuove prospettive di lettura.
Una megalopoli del terzo millennio
Il ricorso a proiezioni e immagini elaborate al computer è sempre più diffuso sui palcoscenici operistici. Spesso, però, il mezzo tecnologico sembra essere solo un surrogato a buon mercato delle scene tradizionali, oppure risulta elemento pleonastico ed esornativo che, anziché contribuire ad arricchire la rappresentazione, finisce per generare confusione e distrazione. Nulla di tutto ciò accade in questa affascinante Turandot palermitana che reca la firma congiunta di Fabio Cherstich e del collettivo AES+F, costituito da quattro artisti russi (Tatiana Arzamasova, Lev Evzovich, Evgeny Svyatsky e Vladimir Fridkes) attivi nel campo della fotografia, della pittura, delle installazioni e dell’animazione.
Tre giganteschi schermi trasportano il pubblico in una Pechino futuribile, gremita di grattacieli e infestata di navicelle e droni. Grazie a un’elaborazione grafica estremamente raffinata, lo spettatore intraprende un viaggio avventuroso ed è condotto ora a sorvolare lo smisurato aggregato urbano, ora ad attraversarlo con traiettorie sghembe. L’immensa città accoglie un’umanità omologata e succube, incarnata dal coro disposto quasi sempre su gradinate da parata e intento a sventolare meccanicamente le bandierine del consenso. A sorvegliare gli individui spersonalizzati provvedono inquietanti guardiani dal volto coperto che brandiscono spade laser. L’imperatore Altoum è una larva centenaria tenuta in vita da una macchina, Turandot una medusa algida e inaccessibile.
Ma le immagini non servono solo a fornire una cornice all’azione: raccontano una storia. La storia dei pretendenti già vinti, i principi belli e sfortunati, inghiottiti nel ventre di un drago-balena e là dolcemente giustiziati dall’abbraccio mortale di tante Turandot aliene, bianche, tentacolari, spietate. Scorrono le teste, mozzate eppure ancor vive nello sguardo indifferente. E dicono, le immagini, del barbaro stupro subito dall’ava Lo-u-Ling: l’antico delitto si moltiplica, sono i principi che – su uno sfondo rosso sangue – usano violenza a tante donne, a tutte le donne, disegnando un tragico bassorilievo in cui l’atrocità è come sterilizzata dalla lentezza dei gesti. Solo quando si consuma il sacrificio d’amore di Liù l’odio atavico si placa: vittime e carnefici possono allora risorgere su coloratissime corolle e abbandonarsi a un olimpico panerotismo.
Queste ed altre suggestioni visive non sono soltanto una gioia per l’occhio, ma uno stimolo per l’intelletto. Invitano a riflettere, mettono in luce corrispondenze riposte, scavano nel senso attraverso la breccia dei sensi. E al contempo avvolgono gli attori in carne e ossa senza prevaricali.
Sonorità possenti
Alla modernità della concezione spettacolare fa da contrappeso un esito musicale fin troppo misurato e a tratti opaco. Gabriele Ferro legge la partitura con passo uniforme. Convincente nei momenti solenni e nelle sonorità piene, appare privo di smalto nelle pagine più mosse (emblematica è la piattezza con cui vengono resi i siparietti di Ping, Pong e Pang) e privo di slancio in quelle più appassionate.
Tatiana Melnychenko presta alla protagonista una voce corposa e sicura. Il Calaf di Brian Jagde è spavaldo e incisivo, nonostante qualche marginale sbavatura. Molto apprezzata è l’interpretazione offerta da Valeria Sepe, che dona calore e vita, oltre che esattezza di intonazione e bellezza di colore, al personaggio di Liù.
Il pubblico accoglie con curiosità l’anomala proposta e si lascia poco a poco conquistare. Nonostante qualche voce dissenziente, l’applauso giunge pieno e convinto.
Visto il 23/01/2019
al teatro Massimo di Palermo (PA)