Correvano gli anni '80, i detenuti seguivano da dietro le sbarre l'evoluzione di quel mostro sacro del pallone che sarebbe poi diventato Maradona. All'epoca Pietro Ioia era poco più che un ragazzo quando finì nel carcere dove sarebbe poi invecchiato, e al momento di uscire, 22 anni dopo, aveva maturato un'idea concreta e oggettiva dell'aria che si respira dietro il muro di cinta. Da qui la forte decisione di raccontare e denunciare quelle verità scomode, quelle storie di ordinaria violenza perpetrate a danno dei detenuti dalla polizia penitenziaria. Successivamente, dall'incontro con Antonio Mocciola, nasce l'idea di un lavoro teatrale ispirato alle sue personali vicende, realizzato con la regia e l'adattamento di Vincenzo Borrelli.
La cella zero è stata per lungo tempo una drammatica realtà del carcere di Poggioreale, un luogo dal quale molti non tornavano, mentre dai corpi di chi tornava si poteva intuire quali torture si consumassero al suo interno. Pestaggi, umiliazioni, percosse, torture fisiche e psicologiche non previste dalla legge alle quali sembrava impossibile reagire, forse inutile, nella certezza che nessuno avrebbe creduto alla parola di un delinquente. La parte del giovane Pietro è stata affidata a Ivan Boragine, che mantiene in piedi tutta l'impalcatura drammatica senza cedimenti, attirando meritatamente l'applauso del pubblico più volte nel corso dell'esibizione. Allo stesso tempo Ioia interpreta il suo aguzzino, il direttore del carcere. Una parte difficile, accolta con iniziale riluttanza nella difficoltà di vestire i panni del proprio persecutore, ma resa poi con deciso spessore, complice un incisivo lavoro preliminare di preparazione sotto la guida di Vincenzo Borrelli.
La lettura di Borrelli cede ad una parziale spettacolarizzazione tipica dei meccanismi teatrali che, tuttavia, si mette al servizio dell'intento di rappresentare questo microcosmo allucinante che è Poggioreale, ponendo al centro dell'attenzione la vessazione fisica come costante dei rapporti tra i reclusi. Spettacolarizzazione sì, ma anche molta sincerità. Non c'è la volontà di demonizzare il personale interno al carcere, così come non c'è indulgenza nel modo di presentare la condizione di chi in prigione ci è finito per giusta colpa. I detenuti non sono soltanto vittime di un istituto penitenziario che non concede loro servizi fondamentali (assistenza medica, servizi igienici, garanzie) e che li priva della dignità umana, sono uomini che da liberi hanno rubato, impugnato armi, ucciso, e le prime violenze le reiterano tra di loro, forti contro deboli.
Il porsi alla giusta distanza da due distinti punti di vista determina un valore aggiunto per questo spettacolo che dimostra la sua attualità nell'importante dibattito civile portato avanti. Oggi la cella zero non esiste più e le guardie coinvolte negli episodi di violenza denunciati sono al momento sotto inchiesta. In chiusura, come di consueto, Pietro Ioia dedica lo spettacolo alle forze dell'ordine, quelle che svolgono il proprio lavoro in modo onesto, quelle che magari lo hanno davvero aiutato nel corso della lunga detenzione e che hanno contribuito alla sua rinascita, fedeli al quel concetto di rieducazione che dovrebbe coinvolgere all'unisono istituzioni, strutture e dipendenti dello Stato. È questo il messaggio di lucidità e grande consapevolezza di un uomo che non ha mai rinnegato i propri errori ma che ha trovato il coraggio di denunciare e farsi portavoce di chi ha subito gli stessi soprusi, oggi anche attraverso il linguaggio scenico, grazie all'aiuto di chi ha saputo tradurre la sua esperienza di vita in teatro. “Sono un uomo!”, gridano gli attori dal palco, un uomo che merita dei diritti di fronte alla stessa giustizia che lo ha condannato.
Visto il 28/10/2016
al teatro Centro Teatro Spazio di San Giorgio A Cremano (NA)
