
Al Teatro India di Roma debutta Progetto Domino, che mette in scena due testi: Fabrizio, scritto e diretto da Manuel Capraro, e Il Rinoceronte, firmato da Eugène Ionesco, per la regia di Irene Di Lelio. I due registi hanno molto in comune: diplomatisi presso l'Accademia Nazionale d'arte drammatica Silvio D'Amico, vantano un curriculum davvero meritevole. Entrambi sono stati i dirigenti del seminario sugli spettacoli del Progetto "Analisi della drammaturgia del testo, dell'attore e della messa in scena" presso l'Università La Sapienza, il cui Dipartmento di Storia dell'Arte e dello spettacolo ha deciso di collaborare al fine di realizzare l'evento performativo.
L'accurata analisi drammaturgica, ha indirizzato i partecipanti sui rapporti di potere,
Fabrizio, non è solo vittima di una donna che lo beffeggia, ma vive un sopruso ancora più grande di quello causatogli da Mirandolina. Il mondo che lo circonda è pattumiera, colorata, forse per mascherarne l'essenza, ma che in fondo rimane la medesima. E' sporco, ignorante, consapevole di esserlo, ma non per questo stanco di divenirlo maggiormente. Mette il guinzaglio a chiunque viva in esso, tra cui il protagonista, impedendogli di rifugiarsi nella bellezza della musica, dell'arte, salvatrice universale degli afflitti d'animo. Eppure trova la forza di combattere, stremato, delirante: probabimente così guadagnerà la libertà.
La "rinocerontite", come una peste, colpirà gli uomini, mutando addirittura il loro aspetto, non soltanto nel fenomeno, ma soprattutto nel noumeno: la mostruosità si concretizzerà nella violenza, nella persuasione ossessiva, nella cattiveria, nell'atrocità, procedendo verso la degenerazione dell'individuo, per giungere all'infanzia del mondo, nel caos primordiale irrazionale. La sensibilità e la percezione non contano più in un mondo reso sistema, nel quale un "Big Brother" osserva ogni singolo pensiero e spostamento. Il potere è la capacità di manipolare il sistema e Bèrenger ne sarà vittima. Un sogno delirante, un incubo, un'allucinazione: proiezioni di reali paure che potrebbero realizzarsi nel concreto odierno.
Cinque attori, diciotto vite vittime del sistema che li ha forgiati, domati e che punta alla demolizione. Solo la capità di pensare ed esprimere la propria opinione può salvare dal male e dalla violenza, che Hannah Arendt ha giustamente definito banale.